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L’eruzione secondo Plinio il Giovane

Lo scrittore latino Plinio il Giovane era stato adottato dallo zio Plinio il Vecchio che abitava nel golfo di Napoli. Da qui assistette all’eruzione del Vesuvio e alla sua morte. In un secondo momento lo storico Tacito chiese a Plinio il Giovane di raccontargli della morte dello zio per aiutarlo a scrivere ai posteri di quell’incredibile eruzione. È proprio attraverso la sua risposta che ci è stata tramandata la data dell’eruzione del Vesuvio.
“Mio zio si trovava a Miseno dove comandava la flotta. Il 24 agosto, nel primo pomeriggio, mia madre attirò la sua attenzione su una nube di straordinaria forma e grandezza. Egli aveva fatto il bagno di sole, poi quello d’acqua fredda, si era fatto servire una colazione a letto e in quel momento stava studiando. Fattesi portare le scarpe si recò su un luogo elevato da dove si poteva benissimo contemplare il fenomeno.
Una nube si levava in alto, ed era di tale forma ed aspetto da non poter essere paragonata a nessun albero meglio che a un pino. Infatti, drizzandosi come su un tronco altissimo, si allargava poi in una specie di ramificazione; e questo perché, suppongo io, sollevata dal vento proprio nel tempo in cui essa si formava, poi, al cedere del vento, abbandonata a sé o vinta dal suo stesso peso, si diffondeva ampiamente per l’aria dissolvendosi a poco a poco, ora candida, ora sordida e macchiata, secondo che portasse con sé terra o cenere.

A mio zio, che era uomo dottissimo, tutto ciò parve un fenomeno importante e degno di essere osservato più da vicino, per cui ordinò che si preparasse una liburnica offrendomi se volevo, di andare con lui. Risposi che preferivo studiare: era stato lui stesso, infatti, ad assegnarmi qualcosa da scrivere. Mentre usciva di casa gli venne consegnato un biglietto di Retina, moglie di Casco, la quale, spaventata dall’imminente pericolo (perché la sua villa stava in basso e ormai non v’era altra via di scampo che montare su una nave), lo supplicava di liberarla da una situazione così tremenda.

Mio zio allora modificò il suo piano e compì con eroico coraggio quel che si era accinto a fare per ragioni di studio. Diede ordine di mettere in mare le quadriremi e vi salì egli stesso con l’intenzione di correre in aiuto non solo di Retina, ma di molti altri, perché quell’amenissima costa era fittamente popolata. In gran fretta si diresse là, da dove gli altri fuggivano, navigando diritto tenendo il timone verso il luogo del pericolo con animo così impavido da dettare o annotare egli stesso ogni nuova fase e ogni aspetto di quel terribile flagello, come gli si veniva presentando allo sguardo. Già la cenere cadeva sulle navi tanto più calda e fitta quanto più esse si avvicinavano; già cadevano anche pomici e pietre nere, arse e frantumate dal fuoco; poi improvvisamente si trovarono in acque basse e il lido per i massi rotolati giù dal monte era divenuto inaccessibile. Egli rimase un momento incerto se dovesse tornare indietro. Poi, al pilota che lo consigliava, disse: ‘La fortuna aiuta gli audaci; drizza la prora verso la villa di Pomponiano a Stabiae!’.

Questa località era sull’altra parte del golfo (perché la costa, girando e incurvandosi gradatamente, forma un’insenatura che il mare invade con le sue acque). Ivi, quando il pericolo non era ancora imminente, ma era stato veduto e, crescendo, s’era fatto più vicino, Pomponiano aveva imbarcato i suoi bagagli, deciso a fuggire nel caso il vento contrario si quietasse. Il vento favoriva in sommo grado la navigazione di mio zio, il quale, appena giunto, abbraccia l’amico tremante, lo conforta, lo incoraggia e, per calmare l’agitazione con l’esempio della propria tranquillità d’animo, si fa portare nel bagno; dopo essersi lavato, si mette a tavola e pranza tranquillamente o, cosa egualmente grande, in aspetto di persona serena.
Intanto su più parti del Vesuvio risplendevano larghe strisce di fuoco e alti incendi, il cui bagliore e la cui luce venivano aumentati dall’oscurità della notte. Lo zio, per liberare gli animi dalla paura, andava dicendo che quelli che ardevano erano fuochi lasciati accesi dai contadini nella loro fuga precipitosa, e ville abbandonate che bruciavano nella solitudine. Poi si mise a dormire, e dormì veramente poiché la respirazione, molto grave e sonora per la grossezza del corpo, era udita da tutti coloro che passavano davanti alla porta della sua camera. Ma il piano del cortile, a causa della grande quantità di cenere mista a pietre pomici da cui era stato riempito, si era talmente innalzato che lo zio, se fosse rimasto più a lungo nella camera da letto, non avrebbe potuto uscirne.

Svegliato venne fuori e si unì a Pomponiano e agli altri che avevano trascorso tutta la notte senza chiudere occhio. Si consultarono se dovessero rimanere in casa o tentare di uscire all’aperto: infatti per frequenti e lunghi terremoti la casa traballava e dava l’impressione di oscillare in un senso o nell’altro come squassata dalle fondamenta. Stando però all’aperto v’era da temere la caduta delle pietre pomici, anche se queste sono leggere e porose. Alla fine confrontati i pericoli, fu scelto quest’ultimo partito. Prevalse in mio zio la più ragionevole delle due soluzioni, negli altri invece il più forte dei timori. Si misero dei cuscini sul capo e li legarono con fazzoletti: e questo servì loro per protezione contro le pietre che cadevano dall’alto.

Mentre altrove faceva giorno, colà era notte, più oscura e più fitta di tutte le altre notti, sebbene fosse rischiarata da fiamme e bagliori. Fu deciso di recarsi alla spiaggia per vedere da vicino se fosse possibile mettersi in mare; ma il mare era ancora pericoloso perché agitato dalla tempesta. Allora fu steso un lenzuolo per terra e mio zio vi si adagiò sopra, poi chiese più volte acqua fresca da bere. In seguito le fiamme e un odor di zolfo annunciatore del fuoco costrinse agli altri di fuggire e a lui di alzarsi. Si tirò su appoggiandosi a due schiavi, ma ricadde presto a terra.

Secondo me, l’aria troppo impregnata di cenere deve avergli impedito il respiro ostruendogli la gola, che per natura era debole, angusta e soggetta a frequenti infiammazioni. Quando il giorno dopo tornò a risplendere (era il terzo da quello che egli aveva visto per l’ultima volta), il suo corpo fu trovato intatto, illeso, coperto dalle medesime vesti che aveva indosso al momento della partenza; l’aspetto era quello di un uomo addormentato, piuttosto che d’un morto”.

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